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“Gli allevamenti? Rinnovano le risorse e riducono la Co2”. Parla Piercristiano Brazzale, presidente della Federazione Mondiale del Latte

Nei giorni scorsi, la commissione Agricoltura dell’Unione europea ha compiuto un primo passo verso l’esclusione degli allevamenti bovini dalla direttiva sulle emissioni industriali. In Inghilterra, il Carbon Footprint Working Group ha avviato un progetto per standardizzare gli strumenti di calcolo dell’impronta di carbonio in tutto il settore, con l’obiettivo di approfondire anche i dati sull’attività di sequestro. Oggi, però, a tanta attenzione sul tema delle emissioni nel settore agricolo e zootecnico non corrispondono ancora informazioni chiare. Un approccio talvolta piuttosto ideologico sembra anzi attribuire all’attività umana di produrre cibo di origine animale moltissime colpe in tema di emissioni e impatto ambientale, tanto da spingere addirittura verso i cibi prodotti in modo sintetico. Ma qual è davvero l’impatto dell’agricoltura sul clima? Dietro le quinte di eventi mediatici e dichiarazioni governative c’è chi sta lavorando proprio su questi aspetti perché i numeri possano finalmente raccontare in modo preciso ciò che un campo che cresce mostra intuitivamente a chi si fermi a guardarlo con un po’ di attenzione. Ed è la Federazione mondiale del latte (Idf), interlocutore di governi e istituzioni che, ancora di più con la presidenza di Piercristiano Brazzale (foto), si è assunta il compito di fare chiarezza su temi fondamentali come le emissioni, l’impronta di carbonio e il sequestro connesso alle attività agricole. Perché tutti, dal consumatore che sceglie ciò che acquistare ai governi che devono legiferare, sappiano davvero di cosa stanno parlando. 

Oggi si fa un gran parlare di emissioni e zootecnia, con dati spesso allarmanti. Come stanno le cose?

L’impatto ambientale della zootecnia e dell’agricoltura più in generale e’largamente sovrastimato. Per questo stiamo lavorando con la Fao e l’Ipcc ed altre organizzazioni per avere metodologie sicure, standardizzate e affidabili per un calcolo appropriato dell’impatto ambientale espresso come carbonfootprint, waterfootprint etc. Facciamo subito chiarezza: in agricoltura le emissioni derivano da un processo di ri-fissazione del carbonio, non nascono dal nulla. C’è un ciclo continuo di immissione ed emissione, nell’attività dell’allevamento, ed è un ciclo in perfetto equilibrio. Agricoltura vuol dire rinnovamento. Agricoltura vuol dire economia circolare, vuol dire utilizzo di ciò che è rinnovabile, vuol dire rinnovare le risorse naturali, non consumarle.

Perché in perfetto equilibrio?

In realtà è qualcosa di molto intuitivo. Prendiamo l’allevamento della bovina da latte. La vacca non crea Co2 dal nulla ma mangiando e metabolizzando l’erba e i foraggi che, durante la loro crescita, hanno catturato Co2 attraverso il processo fotosintetico. E trasforma questi foraggi in latte. Le deiezioni degli animali, poi, diventano concime che nutre il terreno e fa crescere altri foraggi, catturando Co2 attraverso il processo fotosintetico. E così via, in un ciclo senza fine. E questa è la perfetta rappresentazione di una economia circolare sostenibile. Infatti questo Carbonio è definito”biogenico”, cioè fa parte di un ciclo che continua a rinnovarsi usando sempre la stessa quantità del carbonio di partenza. L’unica emissione netta, nel processo produttivo del latte, della carne e delle colture agricole più in generale, è rappresentata dalla quota di energia utilizzata nel processo produttivo.

Cioè?

Il gasolio per arare e raccogliere i foraggi e prodotti agricoli, l’energia elettrica usata per la mungitura e per raffreddare il latte e così via. Ma sono energie che rappresentano dal 5 al 10% del totale della C02 emessa calcolata come carbon footprint con la metodologia LCA,cioe’ dell’intero ciclo di produzione. Energia che viene ampiamente compensata ad esempio attraverso investimenti come i pannelli fotovoltaici e il biogas, che riutilizza metano e riproduce energia. Oltretutto non è detto che servano i pannelli fotovoltaici o il biogas per compensare quella quota, perché tante aziende agricole hanno più terra di quella che serve per coprire le emissioni dei cicli di trasformazione dei prodotti agricoli. Le colture fatte in quei terreni vanno ampiamente a compensare quella quota del 5-10%. 

Questo 5-10% è un dato significativo, però…

Anche qui bisogna fare attenzione. L’attività della trasformazione, come ciascuna altra attività umana, ha delle emissioni. E’ una questione che riguarda tutto ciò che noi facciamo, dalla casa alle attività industriali fino ai trasporti, processi che si stanno sempre più efficientando anche grazie all’aiuto delle nuove tecnologie. Però aggiungo di più: l’industria è al 100% da compensare mentre l’agricoltura è al 5-10% al massimo, quindi in gran parte già ”carbon neutral”. 

Nell’immagine un’industria ad alta emissione (a sinistra) e il pascolo dei bovini (a destra)

E certamente del cibo non possiamo fare a meno…

Esatto. L’agricoltura è unica, per il suo valore insostituibile e per il suo impatto contenuto. Agricoltura e zootecnia, insieme a quelle forestali, sono le uniche attività umane che hanno una compensazione delle emissioni. Tutte le altre hanno solo emissioni nette, non compensano nulla. 

Però le attività agricole richiedono l’uso di terreno. Mais o foresta? Sembra essere questo il dilemma

Molti pensano che un ettaro di foresta catturi più Co2 di un ettaro di mais. Non è vero, i numeri sono ben diversi: un ettaro di  mais compensa di più di un ettaro di foresta, perché è una pianta cosiddetta C4, ad elevata efficienza fotosintetica. Sarebbe interessante mostrare cosa accadrebbe eliminando completamente l’agricoltura dalla faccia della terra. Veder sparire i cibi dalla tavola, i paesaggi cambiare, o cosa succede quando si lascia un pascolo. L’agricoltura incide su ogni aspetto della vita umana, anche molti cui non pensiamo. 

Quindi tutte colture agricole catturano più Co2 delle foreste?

Distinguiamo: esiste una classificazione che suddivide le piante in diverse categorie a seconda dell’efficienza fotosintetica. Le piante coltivate, come il mais, sono fra quelle con elevatissima efficienza fotosintetica (pianta C4), quindi elevatissima capacità di fissazione e di conversione del carbonio in massa vegetale, che si può avvicinare a quella di una foresta coltivata regolarmente con il taglio e la riscrescita periodica. Al contrario, secondo studi fatti da Harvard e dall’Università di San Paolo, una foresta già adulta non tagliata regolarmente, come quella amazzonica, non solo non ha un bilancio netto positivo di fissazione, ma emette circa 2 tons/ha/anno di Co2. Infatti, per realizzare un’elevata fissazione ad ettaro, che però varia a seconda dell’età, della specie e della zona climatica in cui si trova, un bosco deve essere in crescita e ciò fino al raggiungimento dell’età adulta. Per semplificare, la crescita dell’albero e della sua biomassa è il risultato tangibile e visibile di una avvenuta cattura di carbonio attraverso i processi di fotosintesi. La foresta adulta non è in grado di fissare più di quello che emette, anche se logicamente costituisce un preziosissimo habitat biologico che va preservato con grande impegno.

Perché non è più in grado di fissare?

Perché è un sistema ormai saturo di sostanza organica; questo vuol dire che ciò che fissano le piante non compensa l’emissione causata dalla degradazione organica dei residui vegetali del suolo. La foresta adulta non è in grado di fissare più di quello che emette, anche se logicamente costituisce un preziosissimo magazzino di carbonio già fissato che va preservato a qualsiasi costo. 

L’agricoltura è una forma di rinnovamento della nostra capacità di fissare Co2, in sostanza? 

Esatto, è un sistema per rinnovare continuamente il ciclo del carbonio, riprendendo dall’atmosfera per lo meno ciò che è stato emesso da tutte le attività connesse all’agricoltura stessa. Se noi fermiamo l’agricoltura, interrompiamo questo ciclo essenziale. E ricordiamoci sempre che l’agricoltura produce il 100% del cibo di cui ci nutriamo.

Però non ci sono ancora standard che consentano una quantificazione esatta dell’impronta di carbonio delle attività agricole. Come mai?

I calcoli sono resi più complessi dalla quantità di fattori che vanno considerati. Tutto incide. Le caratteristiche del terreno cambiano il processo di fissazione del carbonio così come la fase climatica e la allocazione geografica. Ad esempio: nei climi temperati, come in Europa, durante l’inverno una foresta emette poco, perché c’è poca mineralizzazione a causa della bassa temperatura. Però, al tempo stesso fissa anche poco perché è in riposo vegetativo, quindi il suo bilancio è negativo. Anche nel corso della vita delle piante l’attività di cattura muta. Una pianta a crescita rapida come l’eucalipto, nei primi quattro o cinque anni ha una grandissima efficienza fotosintetica. Poi, quando arriva all’altezza adulta, la sua capacità di catturare crolla. Le colture agricole fissano di più perché hanno un ciclo breve e annuale ma molto intenso e rapido, quindi nel massimo dell’espressione di questa capacità di sequestrare Co2 per unità di superficie. 

Beh, significativo visto che oggi il carbonio è il nostro nemico nr.1… 

In realtà sembriamo aver dimenticato ciò che abbiamo studiato a scuola: tutto è fatto di carbonio. Quello che noi mangiamo è in gran parte costituito da carbonio, il carbonio è l’elemento costitutivo più importante del corpo umano (circa il 18% del peso totale). Quindi sì, le emissioni di carbonio sono un problema, però il carbonio è anche un elemento di base della vita nella terra. L’agricoltura usa il proprio carbonio e continua ad usare quello, non estrae il carbonio fissato da ere geologiche come accade nel caso dei carburanti fossili.

La differenze tra un ciclo biogenico (la zootecnia) e un ciclo a emissioni nette e rimozione del carbone fossile

Però sotto accusa c’è l’agricoltura

Cioè l’unico settore delle attività umane che non utilizza e immette in atmosfera carbonio già stoccato, fossilizzato sostanzialmente da secoli. Oltretutto, oggi si parla solo di gas serra. Ma in realtà ci sono anche le emissioni nelle acque o nel suolo. Questa discussione focalizzata sui gas effetto serra ci sta facendo perdere di vista tutto il resto, che probabilmente è ancora più importante.

Lei faceva riferimento alla tecnologia, in agricoltura. Come ci sta aiutando? 

Grazie alle tecniche di economia circolare, di agricoltura rigenerativa, di agricoltura di precisione, si stanno ottenendo risultati impensabili fino a pochi anni fa. I governi dovrebbero sostenere la produzione e gli investimenti per aumentare sempre di più l’utilizzo di questi sistemi di coltivazione e allevamento, che incrementano l’efficienza dei processi produttivi riducendo drasticamente l’impatto ambientale dei prodotti agricoli.

Nel settore si parla spesso di intensificazione sostenibile. E’ questa la strada? 

Sì: il futuro dell’agricoltura è proprio nell’intensificazione sostenibile, per aumentare la resa di ogni ettaro coltivato ed utilizzare le risorse nel modo più efficiente possibile nel rispetto della sostenibilità, cioè della ripetibilità del processo. Lo stesso Ipcc promuove l’intensificazione sostenibile dell’agricoltura come soluzione al climate change.

Come giudica la posizione della Ue, su questi temi? 

L’impressione è che sia talvolta ispirata da una serie di ideologie ambientaliste dirette e connesse a quella che taluni chiamavano decrescita felice. Ma si tratta in realtà di una decrescita che ci porterà ad aumentare la dipendenza dal resto del mondo. La Ue vorrebbe portare il biologico al 25% del totale della produzione agricola, ma i prodotti biologici hanno una minore efficienza e minore resa ad ettaro. Questo vorrebbe dire estensivizzare piuttosto che intensificare, portando a un maggiore land-use print, cioè a un utilizzo maggiore di terreni per soddisfare i fabbisogni, aumentando in definitiva l’impatto ambientale dell’agricoltura. Inoltre, vorrebbe imporre la riduzione del 50% dei diserbanti senza proporre alternative, determinando una drastica riduzione delle rese agricole delle colture convenzionali accompagnata da una altrettanto drastica riduzione dell’utilizzo di concimi agricoli.

Invece si ‘bastona’ la zootecnia, unica fonte di concimi alternativi…

Talvolta sembrano decisioni schizofreniche. Oltretutto, ricordiamoci una cosa: la popolazione mondiale è in crescita. Abbiamo raggiunto gli otto miliardi di persone. E siamo riusciti ad arrivare a questi numeri grazie al fatto che il settore agroalimentare è riuscito a fare passi da gigante e ad incrementare in maniera esponenziale la produttività. 

Innovazione, efficienza e sostenibilità: che valore hanno queste tre parole? 
Sono le parole d’ordine che ci devono guidare nella produzione del cibo. L’attuale strategia Ue per l’agricoltura, la cosiddetta Farm to fork, invece, non compensa, non sfama e aumenta la nostra dipendenza dal resto del mondo, portando più emissioni. 

Affrontiamo un altro tema di grande attualità: cosa pensa dei cosiddetti cibi sintetici? 

Sono stupito e un po’ rammaricato per la deriva ideologica che la preso la discussione su questo argomento in Italia. Questi prodotti sono frutto dell’innovazione, potrebbero rappresentare un’opportunità e un vantaggio, ma devono essere assolutamente chiamati per quello che sono. Non sono né latte, ne’ formaggi, né carne. Sono qualcos’altro e il consumatore deve essere correttamente informato su ciò che sceglie. A noi spetta difendere l’identità dei nostri prodotti naturali e la loro unicità, sul piano delle caratteristiche nutrizionali e del reale impatto ambientale. 

Ve ne state attivamente occupando?

Sì, stiamo lavorando da aprile del 2022  in sede Codex Alimentarius per una corretta definizione e perché ci siano studi nutrizionali su questi alimenti e valutazioni corrette di impatto ambientale, che oggi mancano quasi del tutto. Per gli studi nutrizionali la Fao ha pubblicato poche settimane fa uno studio di 146 pagine intitolato “Food safety aspects of cell based food“ cui ha contribuito anche Idf per la parte relativa al dairy. Le conclusioni sono che si devono fare ancora studi adeguati per valutarne l’effetto sulla salute pubblica.

E per quanto riguarda il loro impatto ambientale?

Per fare un esempio, il calcolo della carbon footprint viene fatto solo dalla fase della fermentazione in poi, omettendo tutto il processo legato ai singoli ingredienti utilizzati nel processo. Ma gli ultimi studi Lca, cioè dell’intero ciclo produttivo, dimostrano inequivocabilmente che i sintetici o le alternative hanno un carbon footprint sostanzialmente simile a quello del latte e della carne. Noi vogliamo che questi prodotti vengano inquadrati per quello che sono. E altrettanto per l’agricoltura: vogliamo che venga giudicata per quello che realmente è. E rappresenta. Se guardo un bosco vedo una cosa che fa bene all’ambiente, fa bene al pianeta, fa bene a tutti noi. Se guardo un’azienda agricola, ancora di più.

3 thoughts on ““Gli allevamenti? Rinnovano le risorse e riducono la Co2”. Parla Piercristiano Brazzale, presidente della Federazione Mondiale del Latte

  1. D’accordo sull’intera linea, ma nella fase di allevamento di ruminanti del genere bovini si sta dimenticando la quota di emissione di gas (CH4) legato alla digestione nel primo e nell’ultimo tratto dell’apparato digerente. Queste emissioni non sono calcolate? Il CH4 è un gas serra con un potenziale serra 70 maggiore del CO2. Occhio anche alle emissioni in acqua per le deiezioni: non tutte le aziende sono virtuose e lavorano secondo le regole di sostenibilità

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