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Claim green verso la regolamentazione, in Ue. C’è la direttiva. Ma mancano gli standard

Criteri comuni che le aziende dovranno seguire per evitare il greenwashing, cioè l’uso ingannevole di claim green e di sostenibilità sulle etichette e nelle pubblicità dei prodotti venduti nell’Ue. E’ questa la proposta formulata dalla commissione Ue con la Direttiva Green Claim che prevede, per le aziende che vogliono indicare in etichetta informazioni e claim relativi all’impatto ambientale del proprio prodotto o servizio, il rispetto di norme minime su come sostanziare tali affermazioni e su come comunicarle. La questione è finita sotto i riflettori della commissione a causa del proliferare di etichette che fanno riferimento alla sostenibilità o utilizzano claim che richiamano tematiche green. Secondo Bruxelles, ci sarebbero almeno 230 tipologie di etichette di questo tipo ma, “quasi la metà” dei processi di verifica dietro tali affermazioni sono “o deboli o non eseguiti”, si legge in una nota della commissione. “Le dichiarazioni ecologiche sono ovunque: magliette rispettose dell’oceano, banane a emissioni zero, succhi rispettosi delle api, consegne con compensazione di Co2 al 100% e così via. Sfortunatamente, troppo spesso queste affermazioni vengono fatte senza alcuna prova e giustificazione. Questo apre le porte al greenwashing e mette in svantaggio le aziende che realizzano prodotti veramente sostenibili”, ha spiegato Frans Timmermans, vicepresidente esecutivo della Commissione europea. “Molti europei vogliono contribuire a un mondo più sostenibile attraverso i loro acquisti. Devono potersi fidare delle affermazioni fatte. Con questa proposta, diamo ai consumatori la rassicurazione che quando qualcosa viene venduto come verde, è verde davvero”. Le regole riguarderanno tutte le affermazioni sugli “impatti ambientali, gli aspetti o le prestazioni di un prodotto, servizio o del commerciante stesso”, ha affermato la Commissione.

Claim green, la Ue: “Le dichiarazioni dovranno essere verificate e certificate da terze parti”

Il nodo cruciale, ovviamente, è che ogni rivendicazione ecologica delle imprese dovrebbe essere basata sulla scienza, su dati certi, replicabili e verificati. Spesso però non è così, a tutto svantaggio di quanti stanno operando per la ricerca e la realizzazione di soluzioni che consentono di risparmiare risorse, ridurre o compensare le emissioni, migliorare il proprio impatto ambientale. Le dichiarazioni e le etichette ambientali “dovranno essere verificate e certificate da terze parti, da un organismo indipendente ufficialmente accreditato”, spiega la commissione che prevede di lasciare agli stati membri le norme sulle sanzioni”. Nel suo documento Bruxelles ha indicato uno studio del 2020 secondo cui più della metà (53,3%) delle dichiarazioni ambientali “fornisce informazioni vaghe, fuorvianti o infondate”.

“Vietando le indicazioni che non soddisfano i criteri minimi, questa misura contribuirà a migliorare l’affidabilità delle informazioni fornite ai consumatori e avrà quindi un impatto positivo sul processo decisionale dei consumatori facilitando la scelta di prodotti che offrono migliori prestazioni ambientali”, ha affermato l’esecutivo Ue.

La Commissione ha escluso dalle sue proposte le indicazioni ecologiche già coperte dalle norme Ue esistenti, come l’Ecolabel o il logo degli alimenti biologici. La direttiva Green Claim sarà sottoposta al Parlamento Europeo e al Consiglio dell’Unione Europea.

Mancano gli standard per una direttiva. Ma i tribunali possono intervenire. E lo fanno

Ma la faccenda, seppur con buone intenzioni, rischia di portare più danni dei benefici. Ad oggi, infatti, mancano gli standard relativi a tutte le questioni che girano intorno al green, a maggior ragione quando si parla di agricoltura e trasformazione alimentare. Ancora non si è arrivati a definire nemmeno il reale impatto dell’allevamento poiché nel calcolo dei dati che circolano non si tiene conto del fatto che l’agricoltura è l’unico settore che, producendo, compensa le sue emissioni. Mentre oggi l’informazione che viene diffusa lascia pensare esattamente il contrario, quasi come se la Co2 emessa dai bovini non fosse quella assorbita dalle piante che mangiano ma fosse creata ex novo, cosa ovviamene impossibile. Questioni non certo secondarie, sulle quali l’Idf sta lavorando insieme con la organizzazioni internazionali per definire standard corretti di misurazione dell’impatto ambientale. Senza i quali diventa davvero difficile immaginare una regolamentazione di claim ed etichette, che rischia persino di ostacolare o deprimere iniziativa di sostenibilità In una fase come quella attuale sarebbe forse meglio che la Ue attendesse standard rispetto ai quali introdurre normative, lasciando che le aziende siano responsabili di fronte alla legge, e ai tribunali, di quanto affermano sulle etichette. Come è accaduto ad esempio ad Arla Foods, cui un tribunale svedese, a febbraio, ha vietato di utilizzare il termine “impronta climatica net-zero” nella commercializzazione dei suoi prodotti venduti nel paese.