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Cosa ci insegna il pezzo del Financial Times su made in Italy e cucina italiana

Sta facendo molto discutere un articolo pubblicato dal quotidiano economico-finanziario britannico Financial Times in uno speciale sulla cucina italiana. Tutto prende le mosse da un’intervista della giornalista Marianna Giusti al docente di storia dell’alimentazione all’Università di Parma, Alberto Grandi. “Tutto quello che io, un italiano, pensavo di sapere sul cibo italiano è sbagliato“, spiega lo studioso, che qualche anno fa ha pubblicato il volume dall’ titolo ‘Doi, denominazione d’origine inventata’, da cui è stato ricavato anche un podcast. Nel volume Grandi spiega che “I nostri prodotti tipici sono buonissimi, ma la loro storia è una bugia, raccontata più o meno a partire dagli anni ‘70. La ricerca storica quasi sempre smentisce le origini arcaiche delle nostre specialità culinarie, facendoci scoprire che molte ricette cui attribuiamo radici antichissime…sono in realtà invenzioni recenti”. L’articolo di Ft riprende proprio questi concetti asserendo che “Dal panettone al tiramisù, molti ‘classici’ sono in realtà invenzioni recenti”. Tanti i piatti e i cibi citati nell’articolo, fra cui il Parmigiano Reggiano rispetto al quale nell’articolo si legge che “prima degli anni ’60 le forme di parmigiano pesavano solo circa 10 kg (rispetto alle pesanti forme da 40 kg che conosciamo oggi) ed erano racchiuse in una spessa crosta nera. Aveva una consistenza più grassa e morbida rispetto a quella attuale” e che “la sua esatta corrispondenza moderna è il parmigiano del Wisconsin”. Non si è fatta attendere, ovviamente, la reazione di Coldiretti che bolla come “fantasiosa” questa ricostruzione. L’articolo, sottolinea l’organizzazione agricola, “cerca di banalizzare la tradizione alimentare nazionale, dalla carbonara al panettone, dal tiramisù fino al Parmigiano Reggiano”. Altrettanto fantasiose, prosegue la Coldiretti, sono le dichiarazioni secondo cui a inventare la carbonara sarebbero stati gli americani e quella che addita panettone e tiramisù come prodotti commerciali recenti. È “un articolo ispirato da una vecchia pubblicazione di un autore italiano che – rileva la Coldiretti – potrebbe far sorridere, se non nascondesse preoccupanti risvolti di carattere economico e occupazionale. La mancanza di chiarezza sulle ricette Made in Italy offre infatti terreno fertile alla proliferazione di falsi prodotti alimentari italiani all’estero, dove le esportazioni potrebbero triplicare se venisse uno stop alla contraffazione alimentare internazionale che è causa di danni economici, ma anche di immagine”.

Come è facile immaginare, la vicenda ha suscitato commenti, articoli, polemiche. E considerata l’importanza che l’export made in Italy ha per la nostra economia vale la pena fare qualche ragionamento. A cominciare da quello sui danni che secondo l’organizzazione agricola questo pezzo farebbe ai prodotti italiani.

Il valore del Made in Italy non è nella sua storia

Il volume pubblicato da Alberto Grandi da cui prende le mosse l’articolo è un interessante lavoro che mostra come moltissimi dei miti legati al cibo italiano siano in realtà acute e recenti operazioni di marketing. Che dimostrano la vivacità del settore ma hanno anche dei imiti evidenti: non è la storia a rendere pregiati e insostituibili i prodotti italiani nel mondo. Se così fosse, saremmo condannati ad un inesorabili declino quanto più ci si allontana dal passato e non è evidentemente così. Ciò che rende davvero speciali i prodotti italiani non è nemmeno necessariamente il territorio ma è la straordinaria capacità di trasformare e valorizzare materie prime. Il latte, su cui si fondano moltissimi dei nostri prodotti portabandiera, è la commodity più prodotta al mondo. Ma il Parmigiano, la burrata, il gorgonzola, i pecorini e gli altri formaggi li abbiamo creati noi, con la stessa materia prima con cui altri fanno pizza cheese o Edam.

L’articolo, in realtà, sarebbe scivolato fra tanti altri senza che nemmeno se ne avesse notizia se Coldiretti non avesse attaccato a testa bassa definendolo “Un attacco surreale ai piatti simbolo della cucina italiana, proprio in occasione dell’annuncio della sua candidatura a patrimonio immateriale dell’Umanità all’Unesco”. E qui c’è l’altra questione cruciale: il made in Italy è fortissimo. E non è certo un articolo di questo genere che può metterlo in discussione o creare danni economici a prodotti che sono amatissimi e così ricercati nel mondo. Certo, forse il pezzo di Ft dovrebbe farci ragionare su cosa rende davvero forte il made in Italy, sul valore reale delle radici storiche nell’apprezzamento dei nostri prodotti e su un certa atteggiamento protezionista italiano che, questo sì, non è visto da tutti con troppa con simpatia. Ma, di certo, né la candidatura Unesco (maturata in queste ore quindi dopo la scrittura del pezzo in questione) né il valore del prodotti italiani possono essere in discussione.

Il Financial Times e l’Italian sounding, che non è un reato

Per commentare la questione Repubblica ha intervistato il diretto interessato, cioè il professor Grandi. Che, in merito a tutte le polemiche, commenta: “La cucina italiana sta assumendo una dimensione identitaria al di là di ogni ragionevolezza, ormai scattano reazioni pavloviane che non hanno senso. E non capisco perché molti mi attaccano visto che non metto in discussione la qualità del cibo italiano o dei prodotti, ricostruisco in maniera storica e filologicamente corretta la storia di questi piatti. E con i miei studi ho dimostrato che molte preparazioni derivano dagli ultimi 50-60 anni di storia e da interazioni con la cultura atlantica. Luca Cesari nel suo libro sul tema scrive che la prima ricetta della carbonara è datata 1953 Chicago, prima non c’era in Italia. È italo americana. La salsa sulla pizza è nata a New York non a Napoli… ci arriva dopo”.

Quanto all’aspetto storico, Grandi precisa: “Il punto è che confondiamo l’identità con le radici, che sono incrocio, contaminazione. Si parla a torto di identità: la cucina cambia, continuamente. Tirare fuori che dai tempi di Boccaccio in Italia si fa quello o quell’altro piatto è una sciocchezza, se volessimo assaggiare il Parmigiano Reggiano come lo mangiavano i nostri nonni dovremmo andare nel Wisconsin e non a Parma. Il nostro Parmigiano ovviamente è migliore del Parmesan, in termini storici però il Parmigiano dei nonni è più simile al Parmesan che al Parmigiano. Cristallizzare la nostra identità fa un danno, così la uccidiamo, finirà che non se ne parlerà più. In che modo la storia dovrebbe legittimare la qualità? O il Parmigiano è buono o non lo è. Non è che se prendo un cavallino rampante e lo metto su una Panda questa diventa una Ferrari, non è la storia che legittima l’ attualità”. E anche in merito alla candidatura dell’Unesco, Grandi ha una posizione poco popolare: “È una cosa che non sta in piedi da nessuna parte, se l’otteniamo che succede? Chi la ama continuerà ad amarla e a chi non piace continuerà a non piacere. E poi perché la cucina italiana sì e non la greca o la turca per esempio? Nel dossier ci sono diverse cavolate”.

La domanda finale dell’intervistatore riguarda l’italian sounding, erroneamente definito dal giornalista come reato: “La verità è che l’italian sounding è una certificazione di qualità. Se non ci fosse il Parmesan e quella fetta di mercato Usa fosse coperta dalle vendite del Parmigiano, che accadrebbe? Che moriremmo tutti! Perché non c’è più spazio per le vacche qui da noi. I reati vanno perseguiti (e l’italian sounding di per sè non lo è, ndr), ma questo non giustifica chi racconta storie false”.