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Formaggi Dop: la guerra del ‘romano’

“Il Consorzio di tutela del formaggio Pecorino Romano Dop si opporrà con tutti i mezzi legali alla costituzione di una Dop cacio romano, a tutela non solo del comparto, che conta 15mila operatori con un fatturato al consumo di circa 600 milioni, ma anche di tutte le indicazioni geografiche e del consumatore, che rischierebbe di essere clamorosamente tratto in inganno al momento della scelta del prodotto”. Così il Consorzio del Pecorino Romano ha annunciato le prossime mosse della battaglia contro il cacio romano dopo che una sentenza della Cassazione ha dato la possibilità al Caseificio Boccea, azienda laziale che lo produce, di continuare a commercializzarlo con questo nome. In quanto, sebbene i due formaggi si fregino della stessa ‘qualifica’, cioè ‘romano’, non possono essere confusi, come invece sostenuto dal Consorzio, per totale assenza di “similitudine fonetica” e per la ‘radicale diversità dei prodotti’. Inoltre, il ‘Cacio Romano’, dice la Suprema Corte, è stato registrato nel 1991 mentre la Dop del ‘Pecorino Romano’ è stata riconosciuta dalla Commissione europea cinque anni dopo, nel 1996.

Formaggi Dop, Maoddi (Pecorino Romano): “La politica non può ignorarci”

Un pronunciamento osteggiato dall’ente di tutela della Dop, che spiega: “Il Consorzio avvierà una battaglia con le istituzioni europee contro l’ordinanza della Cassazione che ingiustamente riconosce la legittimità dell’uso di un marchio che ricalca il nome della storica Dop. La domanda di riconoscimento della Dop cacio romano è stata in più occasioni archiviata dal ministero dell’Agricoltura; non si comprende come un discutibile uso di un marchio individuale circoscritto nel tempo e non corrispondente ad alcuna tradizione produttiva possa ora diventare una Dop concorrente, con il concreto rischio di minare la tenuta di decine di migliaia di aziende. Il Consorzio si è preso qualche giorno dalla sentenza, prima di esplicitare le sue prossime mosse, come spiega il presidente, Giani Maoddi: “Abbiamo preferito attendere, e dopo una compiuta analisi, esprimerci sul contenuto di un’ordinanza che, a volerla analizzare anche con gli occhi di un non addetto al settore, appare pregiudizievole per tutto il sistema delle produzioni di qualità, nessuno escluso. L’ordinanza della Cassazione di fatto dichiara legittima l’esistenza sul mercato del cacio romano, sottolineando che non c’è assonanza che possa creare confusione fra i due prodotti né trarre in inganno i consumatori. Questa incredibile decisione dei giudici della suprema corte butta via anni di sacrifici e di duro lavoro, e peggio ancora la richiesta del riconoscimento di una Dop. L’appello dell’organismo di tutela del pecorino romano è indirizzato anche ai vertici istituzionali: “La politica non può ignorare quello che sta accadendo, e deve sostenere non solo battaglie all’estero, come per esempio quella giustissima sul Nutriscore, ma anche battaglie interne al nostro Paese come questa. Facciamo appello anche alle associazioni di categoria affinché sostengano le nostre ragioni, a tutela di tutti”.

Il Consorzio del Pecorino Romano: “A chi giova tutto questo?”

Il Pecorino Romano, spiegano dal Consorzio, oltre che in Sardegna conta su importanti realtà anche in Lazio e Toscana: 12mila allevamenti ovini che conferiscono latte per la produzione della Dop e di circa 3mila persone impegnate nella trasformazione e commercializzazione. “Ma a chi giova tutto questo? La domanda sorge spontanea all’indomani di una decisione che, tra gli innumerevoli sostenitori del made in Italy e del sovranismo nostrano avrebbe dovuto, quanto meno, determinare una levata di scudi in favore della denominazione, primo fra tutti il ministero dell’Agricoltura, e invece tutto tace. Si assiste – incalza Maoddi – alla sola schizofrenica presa di posizione di chi al mattino combatte contro l’Italian sounding, il pomeriggio aderisce alla causa contro il Consorzio e la sera promuove la creazione di una Dop cacio romano con l’obiettivo di indebolire e dividere una filiera fondamentale per i territori di produzione. La nostra è, e sarà, una battaglia per la tutela di un patrimonio collettivo, per tutti coloro che operano nella filiera e per le loro famiglie, nonché per le Istituzioni italiane che hanno la responsabilità e dovere di tutelarle. Ogni e più opportuna azione sarà intrapresa, a tutti i livelli nazionali ed europei”, conclude il presidente del Consorzio.

Coldiretti, il cacio romano e il primato geografico

Chi conosce solo un po’ le vicende dell’agroalimentare coglie benissimo il riferimento del presidente Maoddi quando parla di “schizofrenica presa di posizione” perché a sostenere il cacio romano, anche sulla strada verso la Dop, è la Coldiretti Lazio con il suo presidente, David Granieri. Che infatti, all’indomani della sentenza, ha commentato: “Chiediamo la riapertura del dossier Cacio Romano, da troppo tempo fermo sui Tavoli ministeriali. La mancanza del riconoscimento del marchio Dop penalizza il Lazio. La valorizzazione dei prodotti Made in Lazio, sani, genuini e a chilometro zero rappresenta anche un valido modo per contrastare il cibo sintetico, che mette a rischio l’intera filiera agroalimentare e la nostra storia”. Nell’esecutivo più influenzato da Coldiretti che la storia ricordi, cioè quello a guida Giorgia Meloni, è difficile pensare che qualcuno, a cominciare dal ministro Lollobrigida, possa smarcarsi da una presa di posizione così netta della confederazione agricola. Si può pensare quindi che la Dop cacio romano possa ottenere il sostegno del Masaf o, comunque, che non arrivi nessuna difesa per il Pecorino Romano Dop. La faccenda, in realtà, va ben oltre i confini della disputa sul nome perché ha molto più a che fare con la situazione sarda, realtà dove Coldiretti non è mai riuscita ad entrare davvero con la conseguenza di essere costantemente sul piede di guerra rispetto al Pecorino Romano e alle aziende isolane. Tutta l’operazione, insomma, sarebbe più una resa dei conti che la volontà di valorizzazione del prodotto laziale. Una delle classiche situazioni causate dal coldirettismo nazionale. Ma c’è anche dell’altro in questa storia, e riguarda ancora una volta il tema della tutela delle denominazioni e dell’uso dei termini. Non è un segreto che grossa parte della produzione di Pecorino Romano avvenga in Sardegna, per ragioni storiche, climatiche, di territorio. E allora appare un po’ forzata l’idea che la parola ‘romano’ associato ad un formaggio, anche radicalmente diverso dal Pecorino come nel caso del ‘Cacio Romano’, sia appannaggio solo di una Dop che non ha certo nella zona di Roma il cuore della sua produzione. Davvero va negato ai romani, quindi, l’uso di questo termine di tipo geografico? Fino a che punto è giusto che un territorio perda l’uso di termini che lo riguardano in favore di prodotti Dop o Igp?