Accordi&disaccordi: quattro idee su prezzo del latte e dintorni
L’accordo sul prezzo del latte tra Italatte (Lactalis) e Coldiretti, oltre alle inevitabili polemiche tra sindacati agricoli e alle dichiarazioni di politici vari ed eventuali, merita qualche ragionamento in più. Per la portata che ha l’intesa, visto che coinvolge il primo compratore di latte in Italia, per l’effetto che da sempre ha sul mercato e per le novità introdotte.
Il mattone, le vacche e il costo della materia prima
A chiunque non faccia parte del mondo del latte questa potrebbe sembrare indubbiamente una commedia dell’assurdo. E’ chi compra a fissare il prezzo della materia prima, mentre chi vende non fa quasi nulla per promuovere il suo prodotto; il compratore non ha però visibilità sui quantitativi che saranno effettivamente conferiti perché i contratti prevedono il ritiro di tutto il latte. E le vacche non sono macchine dotate di un bottone per la regolazione della produzione: ridurla o aumentarla significa abbattere o acquistare capi. Questa materia prima, che sembra tutta uguale, cambia il suo prezzo secondo la destinazione (e questo può tranquillamente non avere nulla a che fare con le sue caratteristiche). In poche parole: se vendo latte che va a grana padano spunterò una miglior remunerazione che vendendo lo stesso latte per fare il formaggio Asiago. Un po’ come se il prezzo dello stesso mattone fosse legato non alle sue intrinseche qualità ma a ciò che il costruttore edile realizzerà con quel mattone. Tutte le regole del mercato, di fatto, sembrano sovvertite. Certo, dietro molti di questi aspetti c’è una ragione ben precisa: questa materia prima è altamente deperibile. Ma non è solo questo il problema. Eppure, anche dopo la fine del regime europeo delle quote latte, gli allevatori non hanno trovato un modo per fare sistema e provare a condurre la trattativa realmente da protagonisti. Ma, anzi, le rivalità fra sindacati hanno reso sempre più forte la controparte industriale indebolendo gli allevatori, con il prezzo del latte che spesso è solo un tassello di altri giochi.
Cosa hanno guadagnato gli allevatori
In ogni accordo con trattative così serrate, le parti ovviamente guadagnano e perdono sempre qualcosa rispetto alle premesse iniziali. A sentire gli allevatori, questo prezzo è insostenibile per il latte italiano. Ma in realtà ci sono molte cose che non vengono scritte e che raccontano una verità ben diversa. I produttori, forti di un prezzo 2019 eccezionale e di una stagione propizia nel 2020, hanno prodotto un quantitativo enorme di latte. Ma i volumi di vendita non sono certo migliori, decrescono anzi anno dopo anno. Nel 2020 Italatte ha pagato una media di oltre 37 centesimi di euro al litro, forse il prezzo più alto del mercato o, comunque, uno dei più alti, assorbendo un aumento del 4% del conferimento, in un contesto difficile come quello dei mesi passati. Ma più latte, inevitabilmente, significa prezzo più basso, anche a prescindere dalle condizioni di mercato. Così come, altrettanto inevitabilmente, la difficoltà di fare previsioni per i mesi a venire rendono necessario gestire la quantità di latte in entrata. Gli allevatori hanno portato a casa un accordo per i prossimi 16 mesi e la certezza che i quantitativi di quest’anno (+4%), saranno interamente assorbiti. Molto, moltissimo in questo momento. E gli incrementi produttivi? Due le strade: conferire a un prezzo decurtato di 6 centesimi o trovare altre collocazioni con un’azione commerciale.
Cosa ha guadagnato Italatte
Questa è forse la trattativa migliore condotta negli ultimi anni, sul piano della strategia. Capace di garantire all’azienda un prezzo che si spera più possibile allineato al mercato evitando scontri o blocchi come avvenuto in altre circostanze. E trovando un modo di mettere i paletti ai quantitativi ricevuti. Inoltre, l’inserimento dei parametri legati al benessere animale (con il metodo Crenba) costituiscono di fatto un eventuale piano di abbandono soft di stalle vecchie e non al passo con i tempi e le richieste del mercato.
Dove sta andando il latte italiano?
Il mare di latte che, negli ultimi quattro anni, ha inondato il mercato (+8%) è arrivato da ogni parte. Comprese le cooperative di trasformazione che hanno sottoscritto i piani produttivi dei formaggi Dop eppure continuano ad aumentare la produzione di latte, riversandolo nel mercato, anche di quello alimentare, con tutte le conseguenze del caso. Questo significa che il nostro Paese sta cavalcando verso l’autosufficienza ma sembra dimenticare che questo allineerà sempre di più il prezzo a quello Ue. L’effetto delle campagne a favore del latte italiano è l’opposto di quello sbandierato da chi le conduce: il prezzo scende, non sale. Tanto più che la qualità media europea è ben superiore alla nostra. Ma questo, di per sé, non sarebbe un male. Ciò che cambia, in Italia, è il costo paese, nettamente superiore rispetto alla media europea e sul quale si continua a non intervenire. Gli interventi sono invece di tipo assistenzialistico e non fanno che rendere meno competitivo il mondo zootecnico e, di riflesso, quello della trasformazione. Basti pensare al tema del benessere animale: davvero è stata una buona idea aspettare che fosse l’industria a imporlo?
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