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Cosa sta davvero mettendo in crisi l’agricoltura? L’opinione di Antonio Boselli

“Carne sintetica e farina di grilli stanno uccidendo l’agricoltura? Vorrei condividere alcune considerazioni sulla situazione della nostra agricoltura e sulle proteste che stanno proseguendo sia in Italia, sia in altri Paesi della comunità europea, con sfumature e richieste variegate”. Inizia così l’articolo di Antonio Boselli (foto), “orgogliosamente agricoltore e allevatore”, come si definisce lui, ed ex presidente di Confagricoltura Lombardia, pubblicato nei giorni scorsi sul quotidiano La Provincia. Nel suo articolo Boselli affronta tutti i temi che stanno agitando l’agricoltura italiana ed europeoa: le proteste, le politiche agricole, il giusto compenso e lo spinoso tema dei contributi, definiti come “una gabbia che tutela dal mondo esterno”.

La riflessione di Antonio Boselli: manca una vera strategia per l’agricoltura

“Vorrei condividere alcune considerazioni sulla situazione della nostra agricoltura e sulle proteste che stanno proseguendo sia in Italia, sia in altri Paesi della comunità europea, con sfumature e richieste variegate. La domanda iniziale è volutamente provocatoria perché tra le soluzioni a questa crisi si è data enfasi ad alcuni provvedimenti che possono essere definiti ‘civetta’, ‘di distrazione’, perché i problemi reali attuali sono ben altri. Quello che sta mettendo veramente in crisi le nostre aziende è il fatto di non riuscire a ricevere il giusto compenso per i nostri prodotti. Le politiche agricole europee e italiane hanno sempre usato i contributi e le agevolazioni sia per controbilanciare la concorrenza — in termini di prezzo — dei prodotti alimentari dei Paesi extracomunitari (dove non valgono le nostre regole) , sia per cercare di mantenere i prezzi bassi al consumo, sostenendo nel contempo la tenuta economica e sociale del comparto, costituito anche da aziende di piccole dimensioni o collocate in zone svantaggiate. Contributi e agevolazioni rappresentano, di fatto, una gabbia che ci tutela e protegge dal ‘mondo esterno’. Ma se ad un certo punto la gabbia viene tolta, noi difficilmente siamo in grado di spiccare il volo e affrontare le sfide globali.

Quello che manca per renderci forti nel volo è una vera strategia agricola (europea e italiana ) che sappia portarci verso una agricoltura produttiva, rispettosa e rigenerante dell’ambiente, custode del territorio e del tessuto connettivo sociale in cui noi agricoltori operiamo. Avevo sperato che il Covid e la guerra in Ucraina avessero fatto capire l’importanza di avere in Europa una agricoltura forte, con provvedimenti volti a una sempre maggiore autosufficienza alimentare, ma non è stato così. Di questa situazione non siamo esenti da colpe neanche noi agricoltori. Siamo troppo individualisti, facciamo fatica a costituirci in cooperative e organizzazioni di prodotto per cercare di aggregare l’offerta, di fare direttamente trasformazione (per far rimanere più margine all’interno del comparto). Abbiamo filiere lunghe, con tanti passaggi, e fatichiamo a ragionare in un’ottica di processo, dal campo al consumatore.

Vediamo l’anello successivo (industria di trasformazione e gdo) come un avversario e non come un partner, perché la ripartizione del valore lungo la filiera ci vede nettamente perdenti. Cementificazione delle aree di pianura e abbandono di aree economicamente non più valide (abbandonando la collina e la montagna a una boscaglia non produttiva) stanno condannando l’Italia a un declino della produzione agricola e di tutela di tanti territori difficili.

Gli agricoltori europei sono il classico vaso di coccio tra i vasi di ferro, stretti tra una politica che fissa regole e paletti e un cittadino/consumatore poco e spesso male informato sull’agricoltura e sul cibo, indotto a pensare che lo stiamo avvelenando, e una economia che costringe gli agricoltori a produrre sì al meglio, ma al prezzo più basso possibile.

Le proteste sono soprattutto indirizzate verso le politiche europee: attenzione, non si sta contestando in toto il green deal o il farm to fork, perché gli obiettivi di sostenibilità sono una strada da cui non si può tornare indietro; si contestano i tempi e i mezzi per realizzare questo percorso. Non è ammissibile una politica agricola fatta di divieti e diktat, senza valutare attentamente le conseguenze, in termini di una minore produttività e di una mancanza di valide alternative. Imporre in tempi brevi una drastica riduzione dei fitofarmaci e dei concimi, o lasciare terreni incolti senza offrire valide soluzioni, è il suicidio dell’agricoltura europea.

La politica agricola comunitaria dovrebbe basarsi non tanto sui divieti, ma sui premi per chi lavora in maniera produttiva e sostenibile per creare un circolo virtuoso. Dovrebbe favorire l’innovazione tecnologica e non chiudersi di fronte alle tecniche di selezione genetica che riuscirebbero, quelle sì, a migliorare le produzioni e a utilizzare sempre meno chimica e acqua, mettendoci in condizioni paritarie verso le agricolture degli altri Paesi. Ma anche la politica italiana non è esente da colpe, perché se la burocrazia e le complicazioni nascono a Bruxelles, noi siamo abili ad amplificarle. E tutti ne hanno: Stato, Regioni e Comuni. Si tratta di un carico che continua ad aumentare, ad appesantire sempre di più le imprese, a rendere la vita difficile all’economia reale. E poi dov’era la politica italiana, che oggi si straccia le vesti e ci dice ‘avete ragione, siamo al vostro fianco’, quando le norme oggi contestate venivano approvate con i voti dei nostri parlamentari? Devo spezzare una lancia per noi di Confagricoltura, che da subito avevamo cercato di mettere in guardia dalle conseguenze di queste normative. Ma forse dovevamo essere già allora più incisivi.

Noi agricoltori siamo preoccupati dalle importazioni da Paesi dove non valgono le nostre stringenti normative, dove vengono usati prodotti fitosanitari da noi proibiti, dove viene sfruttata la manodopera. E siamo portati a chiuderci, a richiedere un ferreo rispetto del principio di reciprocità normativa verso questi Paesi.

Ma la globalizzazione rappresenta anche un’ottima possibilità di portare nel mondo le nostre eccellenze, e allora come possiamo pensare di esportare e tutelare le nostre produzioni Dop se poi rifiutiamo di accettare i prodotti di questi Paesi?

Bisogna necessariamente stringere accordi, occorrono paletti certi dati dalla politica, è necessario ridare forza al Wto (l’organizzazione mondiale del commercio), perché più allarghiamo questi trattati e più le stesse regole saranno nel tempo condivise dai vari Stati. Noi agricoltori siamo pronti a fare la nostra parte per una agricoltura più produttiva e sostenibile (come propugnato dalla Fao), e vogliamo essere messi nelle giuste condizioni per proseguire questo percorso“.