Il prezzo del latte, Ismea e i 46 centesimi. Cosa succederà adesso?
La notizia della quantificazione dei costi del latte alla stalla di Ismea arriva in un momento delicatissimo per il settore dairy. Ai mesi caldi sul fronte del prezzo della razione alimentare si sono aggiunti anche gli aumenti per gas ed energia elettrica. E in Italia la domanda appare in contrazione, anche per il lattiero caseario. Gli allarmi per la tenuta del settore sono ormai quotidiani e arrivano da tutti i fronti: agricolo, trasformazione, Gdo.
I 46 centesimi indicati da Ismea come costo medio per il 2021, che quindi comprenderebbero solo in parte gli aumenti degli input, scoppiano come una bomba telecomandata dentro un dibattito già teso. Ulteriormente appesantito dalla scandalosa vicenda del premio stalla, un accordo nato sulla consapevolezza che il mercato era già andato oltre e l’intesa mai sarebbe stata applicata, a solo uso di telecamere e dichiarazioni stampa. Di quel premio non è arrivato nemmeno un centesimo nelle tasche degli allevatori.
Ma cosa succederà ora che sul piatto ci sono questi 46 centesimi al litro? Le prime reazioni si sono già viste. Il ministro delle Politiche agricole Stefano Patuanelli, non pago di quanto già fatto sul premio stalla, convoca un nuovo tavolo sul prezzo del latte: “Sarà mia cura convocare rapidamente il tavolo di filiera per dare attuazione rapida e concreta a quell’accordo”. Patuanelli ha parlato di “resistenze” che ne hanno ritardato l’applicazione e che vanno superate. Ma non solo, il ministro si è spinto molto più in la, aprendo la porta a una stagione di grandi contestazioni: “Il parlamento ha recepito la direttiva sulle pratiche sleali: ogni contratto commerciale chiuso al di fuori dei costi di produzione è pratica sleale. I costi di produzione del latte sono fuori controllo e i valori medi dimostrano che l’accordo sottoscritto con un aumento di 3 centesimi, che portava il prezzo alla stalla a 0,41 centesimi, è ormai stato superato dai fatti”. Parole in stretta continuità con quanto affermato da Prandini pochissimi giorni fa, alla vigilia della diffusione del dato Ismea: “La Coldiretti sta raccogliendo gli elementi sul territorio per le denunce, con particolare riferimento alla violazione legata al mancato riconoscimento dei costi di produzione, prevista del decreto legislativo in attuazione della Direttiva Ue sulle pratiche commerciali sleali”. Insomma, la strada sembra già tracciata: tutti i contratti di fornitura siglati sotto ai 46 centesimi (esclusi premi e Iva), potrebbero essere oggetto di denuncia. Cioè la quasi totalità. Ma davvero è questa la strada migliore da seguire?
I rischi di una stagione di contenziosi e denunce
Tante sono le valutazioni da fare, a partire da quelle dei rapporti di filiera. Difficile pensare che le relazioni fra mondo agricolo e trasformazione possano essere positivamente gestite nelle aule di tribunale. Facciamo un esempio: chi oggi paga 0,44, cioè un prezzo buono rispetto ai corsi del mercato, potrebbe trovarsi a dover difendere la propria scelta davanti a un giudice, nonostante stia riconoscendo una delle quotazioni più alte in Italia. Quale potrebbe essere l’esito di trasferire la normale dialettica tra le parti in una stagione di contenziosi e denunce? La direttiva pratiche sleali è nata per punire, appunto, le pratiche sleali e non per essere una protezione dai momenti più tumultuosi di mercato o un modo per strappare aumenti di prezzo. Oltretutto si sa già che, a febbraio, molti contratti di peso supereranno ampiamente i 46 centesimi, nei fatti, considerando iva (che resta agli allevatori) e premi. Ma c’è di più: la fissazione di un costo medio rischia di trasformarsi in un prezzo di stato, con tutte le conseguenze del caso. Fissare un prezzo significa di fatto anche tagliare gli scostamenti, quelli verso il basso, ovviamente, ma anche quelli verso l’alto. La faccenda poi costituirebbe un cambio totale di prospettiva nel settore dairy: il prezzo del latte sarebbe del tutto sganciato dalla valorizzazione del formaggio che con questo si produce, legandosi solo ai costi della produzione. Cosa che alcuni auspicano da tempo ma, probabilmente, non nel settore allevatoriale. Anche perché uno degli effetti concreti potrebbe essere, in futuro, quello di far tornare competitivo il latte estero. Ma non finisce qui.
L’Antitrust: “Si rischia di disincentivare l’efficientamento delle filiere e favorire le materie prime estere”
L’impensabile, cioè la fissazione di un prezzo minimo di stato per il latte alla stalla, per qualcuno è alle porte. Eppure, l’economia dimostra che questo non è mai un bene. Lo si è visto con il premio stalla: mentre si trattava e discuteva il mercato andava avanti, rendendo anacronistico un prezzo che però, in virtù dell’esser stato fissato, ha finito per diventare un riferimento. Ma sulla strada di questa complicata vicenda c’è sempre, sullo fondo, l’Antitrust, che il via libera al premio stalla l’aveva dato sotto condizione. E che più volte è intervenuta in tema di leggi sulla contrattazione, bacchettando la situazione nazionale. L’ultima occasione è stata quella dell’accordo di filiera siglato in Puglia, che ha dato modo all’autorità di tornare sulla normativa italiana: “Le disposizioni normative nazionali relative alla negoziazione dei prodotti agricoli configurano nel loro complesso un corpus normativo piuttosto disorganico e farraginoso, non sempre armonizzato con la normativa europea e che tende a privilegiare le organizzazioni di categoria e non già le Op valorizzate, invece, dalla normativa europea. L’autorità auspica la messa a punto di strumenti di tutela del comparto agricolo che non disincentivino la competizione sull’efficienza, inibendo il virtuoso processo di concentrazione degli allevatori”.
Ma ce n’è anche sul tema del costo di produzione: “Le norme che impongono agli acquirenti di prodotti agricoli l’applicazione di prezzi di acquisto agganciati ai costi medi di produzione, inevitabilmente riferiti a imprese che presentano diverse strutture produttive e livelli di efficienza, possano disincentivare il processo di efficientemente delle filiere agricole favorendo, tra l’altro, un recente ricorso all’utilizzo di prodotti e materie prime eventualmente disponibili a costi inferiori sui mercati esteri da parte delle industrie di trasformazione nazionale”.
Ma come funziona il calcolo di Ismea sui costi del latte?
Tra i diversi aspetti rilevati dall’Antitrust, c’è quello importantissimo del metodo di calcolo. Stabilire un costo medio, per un paese dove gli allevamenti vanno da piccole realtà con pochi capi, magari in montagna, a enormi stalle di pianura, non ha alcun senso. Tanto più che non solo la realtà degli allevamenti è frammentata e, come fa notare l’Agcm, “presenta diverse strutture produttive e livelli di efficienza”, ma lo è anche quella della trasformazione. In Italia l’orizzonte produttivo va dalle commodity al Bettelmatt e in mezzo c’è di tutto: come è possibile stabilire riferimenti che valgano per tutti? E come calcola Ismea il costo medio? Su questo non ci sono sufficienti informazioni ed è ovvio che qualsiasi trasformatore si dovesse trovare a difendere il proprio prezzo comincerà da qui. E difficilmente la misura di Ismea troverà corrispondenza.
E cosa succederebbe se, andando indietro, si dovesse scoprire che, per coerenza con i dati odierni, in passato il latte aveva un costo produttivo di 28 e veniva pagato stabilmente 38 a litro? O se l’analisi effettuata in un’aula di tribunale dovesse stabilire che la misura è errata? In un quadro tanto difficile converrebbe forse partire dall’analisi dei dati reali, cercando di lasciar fare alle trattative dentro il mercato. Le sindacali agricole hanno già annunciato presidi e manifestazioni. In Sardegna si sono riviste le proteste di qualche mese fa. Ma dietro le quinte c’è anche un clima pesantissimo in Coldiretti, una sorta di tutti contro tutti che vede contrapposte correnti e persone. Prandini, Voltini, Gesmundo: i nomi sono sempre gli stessi, i disaccordi sempre più forti. E il rischio è quello di alzare la polvere perché non si vedano i guai di casa propria. A svantaggio di tutti. In questo complicato domino, la Gdo non ha dato i tre centesimi del premio stalla e nemmeno sta ritoccando i listini, come chiedono da mesi i trasformatori e come ha ricordato anche oggi Assolatte. Ma i prezzi, intanto, continuano a salire per tutti. E il consumatore, in tasca, ha sempre meno soldi. E poca voglia di spenderli.
Buongiorno, secondo il mio parere, era ora che un organismo statale si pronunciasse sulla questione costo medio di produzione di un litro di latte, in questo modo si fissa un punto zero dal quale si deve contrattare il prezzo del latte; perché, parliamoci chiaro, si vuole un agricoltura sempre più green, Dev essere garantito il benessere animale, meno uso di antibiotici…. Ma tutte queste belle cose vogliono dire una cosa sola: INVESTIMENTI, e per questo servono soldi ed i soldi arrivano dalla vendita del latte oppure, come al solito, aspettiamo il contributo a fondo perduto che sappiamo già come va a finire. Quindi per chiudere il discorso ben venga il costo medio di produzione sotto al quale si può denunciare la pratica sleale, che non va interpretato come prezzo minimo di stato, attenzione, va inteso come il prezzo medio di vendita sotto il quale un azienda agricola è in perdita. PUNTO.