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E-commerce: in Italia la piattaforma è responsabile per gli illeciti commessi da terzi

La Sezione specializzata in materia d’impresa del Tribunale di Milano, con ordinanza cautelare del 19 ottobre 2020, ha deciso un procedimento d’urgenza promosso da due produttori specializzati in beauty e profumeria, che avevano adottato un sistema di distribuzione selettiva per tutelare il prestigio dei brand, nei confronti di Amazon. Attraverso la piattaforma di e-commerce sono stati venduti i prodotti dei marchi in modo diretto e attraverso terzi. E in virtù di questo contesto, il Tribunale di Milano ha riconosciuto al gestore dei marketplace (Amazon) la responsabilità per contraffazione di marchio. La parte più interessante della sentenza è questa: il sito di e-commerce è stato considerato un hosting provider attivo con riferimento alle vendite effettuate da terzi attraverso la piattaforma.

Questa decisione cambia le regole del gioco o, quantomeno, crea un precedente in un quadro giuridico ancora fluido in tema di e-commerce, ancora comodamente vincolato dalle norme previste dal Decreto legislativo 70/2003 (https://www.camera.it/parlam/leggi/deleghe/03070dl.htm).

Il Dlgs attua la direttiva europea 2000/31/CE ed equipara le piattaforme di e-commerce a service provider, ossia in modo equipollente a un gestore telefonico, dunque non possono essere ritenute responsabili dei dati che transitano sulle “linee”. Questo per una forma di tutela nei confronti degli operatori che forniscono connettività ma che per estensione è applicato anche al commercio elettronico dei pure player. La domanda a cui non si è trovata risposta, finora, è questa: nel momento in cui un sito e-commerce puro genera un fatturato dalla vendita, diretta o indiretta, di prodotti, è davvero “super partes” e non può essergli imputata alcuna responsabilità, alcun obbligo, alcun dovere legislativo?

Finora la risposta non data, ma di prassi, è “sì”, in virtù del Dlgs 70/2003: questo crea una netta spaccatura di responsabilità e obblighi tra i retailer fisici e gli onliner pure player. In questa fenditura si innestano tutti i comportamenti anticompetitivi, tra cui il mancano versamento di tasse e imposte in misura commisurata e coerente al Paese in cui si sta operando (dall’Iva con aliquota italiana al Raee, giusto per fare alcuni esempi). Questi risparmi si trasformano in politiche aggressive di prezzo e, spesso, in mancate tutele dell’ecosistema nel suo complesso, acquirente incluso. Sia ben chiaro, non è il caso specifico di Amazon, ma più che altro dei siti “mordi e fuggi” che promettono scontissimi e prezzacci e poi spariscono senza ottemperare agli obblighi fiscali e legali.

La responsabilità della piattaforma e-commerce

La sentenza del Tribunale di Milano, invece, è una pietra fondante, perché riconosce che il gestore dei marketplace è responsabile degli illeciti compiuti da terzi in quanto ha un ruolo attivo: nello specifico si occupa di gestire i clienti, le promozioni e le attività commerciali in senso stretto. Oltre, aggiungiamo noi, a ottenere un guadagno da questa attività.

È inoltre importante che il Tribunale abbia scelto di agire d’urgenza, dopo avere attentamente valutato la liceità del sistema di distribuzione selettiva dei prodotti e riscontrando che le modalità di vendita sul marketplace ledevano il prestigio del brand. Così il Giudice Dott.ss Zana ha accertato la vendita diretta dei beni da parte dell’e-commerce, con cui è stata stabilita la responsabilità per contraffazione di marchio, e poi ha esaminato i processi e i servizi attuati dal pure player.

Come scrive l’Avvocato Riccardo Traina Chiarini nel suo commento sulla pagina dello Studio Previdi (https://www.previti.it/amazon-hosting-provider-attivo/):

“Il Tribunale ha dunque accertato, in concreto, che Amazon, tra l’altro, (i) “gestisce lo stoccaggio e la spedizione dei prodotti”, (ii) “gestisce un servizio clienti per le inserzioni di vendita di terzi, che costituisce l’unico servizio di cui il cliente dispone per potersi interfacciare con il venditore”, (iii) “è responsabile di un’attività promozionale anche tramite inserzioni su siti internet di terzi” e (iv) “permette ai consumatori di inferire l’esistenza di un legame tra Amazon” e le aziende produttrici dei prodotti venduti sulla piattaforma”.

L’Avv. Traina Chiarini è molto chiaro nella sua analisi:

“Ne consegue che ad Amazon non sono applicabili le esenzioni di responsabilità previste dalla normativa innanzi citata in quanto, per l’appunto, l’attività da essa prestata è qualificabile in termini di fornitura di un servizio di hosting “attivo”, “avendo conoscenza e controllo dei dati che vengono inseriti dai terzi venditori”. È importante sottolineare, come ricorda lo stesso Tribunale di Milano, che tale riconoscimento non influisce direttamente sulla possibilità, per l’autorità giudiziaria, di emettere un ordine di inibitoria nei confronti dell’intermediario – l’inibitoria infatti può essere disposta nei confronti di tutti gli intermediari della rete, siano essi qualificabili in termini di mere conduit, caching, hosting (“attivo” o “passivo” che sia), o siano piuttosto figure ibride difficilmente inquadrabili in quelle “codificate” (come lo stesso Tribunale di Milano ha recentemente riconosciuto con altra ordinanza riguardante un fornitore di servizi di Content Delivery Network). L’importanza della statuizione, tuttavia, è evidente, rilevando sotto “il profilo risarcitorio, sul regolamento delle spese processuali e sulla diversa modulazione del comando cautelare (soprattutto ove l’illecito sia continuativo)”.

Questo ruolo attivo, secondo il Tribunale, nello svolgimento delle attività attuate dalla piattaforma e-commerce lo esclude dall’esenzione di responsabilità previsto dall’articolo 16 del citato Decreto legislativo 70/2003.

Art. 16
(Responsabilità nell’attività di memorizzazione di informazioni – hosting-)

1. Nella prestazione di un servizio della società dell’informazione, consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non e’ responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore:
a) non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l’attività o l’informazione e’ illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illiceità dell’attività o dell’informazione;
b) non appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso.

2. Le disposizioni di cui al comma 1 non si applicano se il destinatario del servizio agisce sotto l’autorità o il controllo del prestatore.

3. L’autorità giudiziaria o quella amministrativa competente puo’ esigere, anche in via d’urgenza, che il prestatore, nell’esercizio delle attività di cui al comma 1, impedisca o ponga fine alle violazioni commesse.

L’attività di gestore del marketplace, sempre secondo il Tribunale, non si è limitata alla prestazione di un servizio di ordine esclusivamente tecnico, automatico e passivo, per il quale la piattaforme non può conoscere e controllare le informazioni che transitano o sono memorizzate dall’utente (ancora una volta, si pensi al ruolo dei provider telefonici e Internet).

Il Tribunale ha creato il caso, il precedente. Ha ritenuto il provider e-commerce responsabile diretto delle attività di contraffazione del marchio anche quando svolge un ruolo di intermediario tra venditori (anche terzi) e consumatori proprio perché c’è lo sfruttamento della piattaforma per un utilizzo commerciale. Ciò si traduce nell’inibizione dei prodotti attraverso il marketplace.

Provider e-commerce: In Italia è attivo, in Europa è passivo

Ora c’è tutto uno scenario da valutare, ossia la sentenza di Milano è in contrasto con la decisione presa in Lussemburgo. A inizio ottobre 2020, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha riconosciuto la natura di hosting provider passivo ad Amazon. Questo perché in Lussemburgo si sono limitati a considerare, per come era imbastito il dossier, la sola attività logistica svolta dalla piattaforma. Per dovere di cronaca, la sede centrale europea di Amazon è in Lussemburgo.

La dicotomia giurisprudenziale deriva dalla diversa analisi delle fattispecie. A Milano, infatti, è entrata nel dettaglio delle attività svolte in concreto dalla piattaforma e-commerce e dai marketplace con l’obiettivo, come scrive il Sole 24 Ore, di “individuare la linea di confine tra prestatore dei servizi della società dell’informazione neutrale e non neutrale”.

Ciò che è stato deciso nel Tribunale del capoluogo lombardo è destinato ad aggiungere un tassello importante, per certi verti fondante e pivotale nella regolamentazione italiana ed europea dei pure player del commercio elettronico. Urge una attualizzazione della direttiva europea 2000/31/CE, non solo attraverso emendamenti ma costruendo un corpus legislativo coerente e uniforme, che regoli le distonie tra retail fisico e online. Se poi questo sia un testo unico oppure una struttura legislativa ad hoc, poco importa. Serve ed è diventato urgente e necessario.

Come ha detto Davide Rossi, Presidente di Optime in occasione della presentazione dei risultati 2020, è arrivato il momento di scardinare “l’intangibilità di Amazon” e di tutte le piattaforme e i marketplace analoghi in virtù dei ruoli molteplici che ricoprono nel processo di vendita e nella costruzione di un rapporto di fiducia con i consumatori. Secondo Rossi non possono essere considerati “meri intermediari per sottrarsi alle responsabilità”, soprattutto nei confronti dei diritti dei consumatori.

Una normativa omogenea a livello europeo eliminerebbe anche le distonie competitive. Sì, perché, come scrive il Sole 24 Ore, “la distinzione tra hosting attivo e passivo passa, ormai e inevitabilmente, sempre più da una verifica in concreto caso per caso della condotta e delle attività svolte dal provider”. Il che può portare, di volta in volta, a sentenze o decisioni non allineate a seconda degli aspetti prioritari che sono presi in considerazione.

Considerando il tipo di attività svolte dai pure player, dal nostro punto di vista, non esiste alcun dubbio: hanno un ruolo “attivo” e devono essere soggetti, senza alcun limite, ai medesimi obblighi dei negozi fisici. Questo è l’obiettivo da perseguire per garantire che il commercio, nel suo insieme, non imploda da una impostazione eccessivamente basata su binari paralleli e su una sorta di ignavia decisionale nelle stanze dove si deve decidere come cambiare la legge. Come suole dire Davide Rossi: “Ci sono soluzioni pratiche, semplici e volendo già pronte da applicare subito per ristabilire un equilibrio meno sbilanciato tra online e offline”.

Attivo o passivo: le norme per i provider italiani