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Misure anti Covid: perché (anche) le parole sono importanti

Adesso siamo davvero arrivati al capolinea. Oggi, girando per Milano, le solite interminabili code davanti ai pochi negozi aperti. Mentre sui tanti che hanno nuovamente le saracinesche abbassate sono attaccati cartelli di ogni tipo. Molti, e quello fotografato è solo un esempio, sono positivi, carichi di speranze e aspettative: “Nel 2021 ripartiremo alla grande”. Perché ancora ci credevano, negozianti e ristoratori, nonostante tutto. Perché la voglia di ripartire, con tutte le necessarie cautele ma anche le dovute certezze, era lì. Ha riempito le giornate natalizie con i negozi chiusi e tutti a parlare del vaccino che arriverà e del 2021 che sarebbe stato un punto di svolta. Erano le promesse del governo, era la motivazione di tanti sacrifici, era il racconto in cui si intravedeva il lieto fine, in fondo al tunnel. Ma tutte queste attese sono state, ancora, puntualmente tradite. E tutti quelli che hanno abbassato le serrande confidando nel meglio che doveva arrivare si ritrovano oggi a non sapere, di nuovo, se e quando potranno riaprire. Con dichiarazioni che si contraddicono, scarso preavviso, norme e colori sempre più confusi. Ma prima ancora di discutere le misure, si tratta di come e quando dire le cose. C’è un gioco, lo potete scaricare anche per smartphone, che simula una pandemia. Si può scegliere se fare la parte di chi comanda il virus e tenta di distruggere il mondo o di chi, invece, lo salva. E fa impressione vedere come, nel gioco, la perdita di autorevolezza con misure troppo a lungo strette, non compensate e poco comprensibili, sia la chiave di volta per vincere (se siete il virus) o per perdere. Perché cominciano i disordini di piazza e cadono i governi, portando alla scomparsa degli stati, uno dopo l’altro. Tutto tanto, troppo vicino alla realtà. Tradire le promesse e le speranze è la cosa peggiore che si possa fare in un momento simile, ancora peggio che chiudere. L’esasperazione e la stanchezza sono palpabili, si respirano nell’aria. Questo nuovo anno avrebbe dovuto portare, prima di tutto, parole nuove. Perché le parole sono il fondamento dello stare insieme, anche di un paese. E invece, di nuovo, ci sono le code davanti alle mense dei poveri, che diventano sempre più lunghe, e il ritorno degli sfratti, che dal primo gennaio si possono nuovamente fare. Il gioco, per chi volesse provare, si chiama Plague. La realtà, invece, è il grido di dolore di Fipe, la Federazione dei pubblici esercizi, che parte da un numero: 37,7 miliardi di euro.

Fipe: “sacrificio sociale non giustificato dai dati”

37,7 miliardi di euro sono le perdite registrate dal settore nel 2020, pari a circa il 40% dell’intero fatturato annuo.I drammatici dati 2020 della ristorazione sono stati diffusi oggi da  Fipe – Confcommercio, Federazione Italiana dei Pubblici Esercizi, insieme alle principali sigle sindacali del Commercio e del Turismo, Filcams CgilFisascat Cisl Uiltucs Uil. Il colpo più duro al settore è arrivato dalle chiusure di novembre e dicembre. Storicamente, nel periodo delle festività dicembrine per una parte rilevante dei locali si arriva a generare fino al 20% del fatturato annuo: nel quarto trimestre 2020, invece, le perdite registrate hanno superato i 14 miliardi di euro, con un meno 57,1% dei ricavi, peggio ancora di quello che era successo nel II trimestre, quello del primo lockdown. Questa fine anno ha di fatto vanificato gli sforzi estivi che pure avevano portato ad un contenimento delle perdite in alcune aree turistiche del Paese. Le grandi città, ed in particolare le città d’arte, dove ha pesato di più l’assenza del turismo internazionale, non hanno invece beneficiato nemmeno della tregua estiva, registrando perdite complessivamente superiori all’80%.

“La ristorazione italiana – dichiara Lino Enrico Stoppani, presidente di Fipe-Confcommercio – non ha pace: ogni volta che si avvicina la scadenza delle misure restrittive, ne vengono annunciate di nuove e si riparte da zero. Così anche il primo provvedimento del 2021 ha disposto la chiusura di bar e ristoranti nei fine settimana, lasciando gli imprenditori nell’incertezza dall’11 gennaio in poi, con i danni e le distorsioni che ne conseguono. Chiediamo a Governo e Comitato Tecnico Scientifico di dare prospettive diverse – più certe, ma anche più motivanti – ad un settore che ha pagato un prezzo altissimo, ma soprattutto che ha già dimostrato di poter lavorare in totale sicurezza. Non è più accettabile che i pubblici esercizi, insieme a pochi altri settori, siano i soli a farsi carico dell’azione di contrasto alla pandemia, richiesti di un sacrificio sociale non giustificato dai dati e non accompagnato da adeguate e proporzionate misure compensative. È indubbio che per uscire da questa crisi ci sia bisogno del contributo di tutti, ma proprio per questo non si può imputare sulle spalle sempre delle stesse categorie il peso del contenimento della pandemia, affossando nel frattempo un settore strategico per l’economia del Paese e per la vita quotidiana delle persone.”

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